Company Culture: la ricetta per la trasformazione aziendale che parte dalle persone

Company culture

Scegliamo uno smartphone in base al suo sistema operativo, della velocità di utilizzo che garantisce o delle integrazioni offerte. E allora perché non lo facciamo anche per le aziende, con la company culture? 

Martedì 30 novembre dalle 17 approfondiremo il tema della company culture e del work disruption. Conosceremo esperti di primo livello sui temi dell’employee caring, della trasformazione digitale e del business & personal branding. Ospiti di questa chiacchierata saranno infatti Alessandro Rimassa, Founder di Radical HR e Autore di “Company Culture”, Fabiana Andreani, Senior Training HR Manager in RCS Academy e Career Influencer. E ancora, Alessia Canfarini, Partner in BIP, e Aldo Razzino, CEO di Open Search Network, moderati da Alberto Maestri, Digital Industry Analyst.

In attesa della round table digitale (alla quale puoi iscriverti qui), non perderti l’esclusiva intervista con Alessandro Rimassa, esperto di future of work e fondatore di RADICAL HR (www.radicalhr.it).


Ciao Alessandro, ci racconti cosa ti ha spinto a scrivere il tuo libro «Company Culture. Il sistema operativo che fa crescere le aziende»?

L’idea di scrivere Company Culture nasce a febbraio 2020, poco prima dell’inizio della pandemia. In Talent Garden avevo fatto un enorme lavoro sulla costruzione di una cultura aziendale, una cultura che non fosse semplicemente una mappa di valori, ma una modalità con la quale le persone potevano lavorare in azienda. Il principio alla base di queste nuova modalità era che ad ogni valore corrispondessero dei comportamenti e delle pratiche di lavoro. Dopo averne parlato con alcuni colleghi e con Egea, con la quale avevo già collaborato, ho cosí deciso di scrivere il mio libro sull’innovazione, non digitale ma delle persone

Come aziende, dobbiamo entrare in un nuovo decennio: gli anni 10 sono stati gli anni della digital transformation, del buzzword e della concretizzazione della digitalizzazione delle aziende. Questa digitalizzazione però non è ancora completa e lo abbiamo scoperto proprio grazie all’arrivo del Covid: non tutte le aziende erano davvero così digitalizzate come credevano!

Perché la digital transformation non era completa? Perché c’era stato un piccolo errore nel farla e perché non sapevamo di cosa si trattasse realmente. Si pensava che il driver della trasformazione fosse la tecnologia, ma in realtà sono le persone

Oggi entriamo negli anni 20, gli anni della company culture, gli anni della people transformation, gli anni di un future of work che diventi presente e non più futuro. 

Come inaugurare questi anni? Ovviamente con un mio libro! 

A parte le battute, è fondamentale razionalizzare questi ragionamenti sulla cultura aziendale per condividerli con gli HR, con gli amministratori delegati, con i manager all’avanguardia, capaci e predisposti a riformare la propria azienda.

Perché parlo di “company culture” come sistema operativo che fa crescere le aziende? 

Perché le nostre aziende sono state regolate per centinaia di anni da un sistema operativo che è costruito su procedure, regole, burocrazia e politica interna. 

In un’epoca di cambiamento continuo, di sfida globale, di concorrenza, le aziende non possono continuare ad avere questo sistema operativo perché è troppo lento e dispendioso di energie. 

Abbiamo bisogno di un sistema operativo che regoli l’azienda in maniera diversa dal passato, non più attraverso regole e procedure interne! Abbiamo bisogno di un sistema flessibile basato su una serie di valori e di comportamenti, dobbiamo affidare alle singole persone e ai singoli micro team la possibilità di adottare una serie di comportamenti in base a quei valori. 

Nell’identificare questi valori, ne ho individuati alcuni che non sono più negoziabili: la trasparenza e la fiducia. Ecco perché abbiamo bisogno di un nuovo sistema operativo: non perché sia più giusto o perchè le persone debbano essere più importanti, ma per far funzionare meglio le nostre aziende, per continuare a renderle efficaci, efficienti e veloci e in continua crescita di fatturato e di margini.

Quali 3 aggettivi useresti per descrivere un’azienda a prova di futuro e cosa significa questo termine oggi?

Un’azienda future proof è un’azienda che continua a re-immaginarsi e a pensare come può migliorare per il futuro. 

In Italia abbiamo aziende di servizi e aziende di alta qualità, dove le persone sono centrali. Se la nostra azienda è a prova di futuro, sa come metterle al centro. 

Quindi… come mettere al centro le persone? Ascoltandole, ascoltandole, ascoltandole e osservandole. Dobbiamo imparare a lavorare come i designer, che ascoltano e osservano le persone e in base alle loro osservazioni fanno nuove sperimentazioni, poi ascoltano e osservano e man mano continuano a rimodularsi.

Un’azienda future ready è un’azienda fluida che continua a cambiare. Se vogliamo trovare delle keywords per una azienda del futuro, sicuramente abbiamo la flessibilità, la velocità e la trasparenza.

Ci racconti il binomio produttività-felicità e perché è così importante per far crescere un business?

Come anticipato precedentemente, le persone oggi sono al centro delle aziende di servizi o di prodotti di alta gamma, perché le persone sono fondamentali per fare quel prodotto o servizio. Non esistono più le aziende con dei dipendenti, ma siamo in un momento storico in cui abbiamo aziende dipendenti dalle persone.

Questo secondo me è il punto focale della questione: se vogliamo far crescere l’azienda, il business e il fatturato, abbiamo un estremo bisogno di tenere le persone migliori con noi in azienda. Ovviamente, più è piccola l’azienda e più abbiamo bisogno di loro, perché abbiamo meno processi e automazioni. 

Come tenersi le persone migliori?

Dobbiamo occuparci delle persone, non nel luogo di lavoro, dato che ormai non c’è più l’idea di un luogo di lavoro e quindi non ci esiste più il concetto di work life balance. Oggi abbiamo la work life integration perché il lavoro e la vita privata continuano a sommarsi uno sull’altra. 

Occuparsi delle persone significa occuparsi di loro a tutto tondo, della loro felicità: gli americani parlano di «sense of fulfillment», dove le aziende si occupano di far sì che le persone abbiano una vita piena. Felicità è la traduzione un po’ esasperata, in senso positivo, di fulfillment. Il punto centrale è che se noi ci occupiamo delle persone, e quindi di aiutarle ad essere piu felici, lo dobbiamo fare senza entrare nella sfera delle emozioni e dei loro affetti. Innanzitutto aiutandoli in tante cose che fanno parte anche della loro vita personale. Ad esempio, i contributi per i libri scolastici, la flessibilità oraria quando si ha figli, la possibilità di viaggiare e di fare esperienze all’estero. 

Se impariamo ad ascoltare le persone e ad anticipare i loro bisogni, aiutiamo le persone a stare meglio. Ad esempio, durante la pandemia le aziende che più si sono occupate delle persone sono quelle che hanno offerto un supporto psicologico. Oppure quelle che hanno spedito a casa del personale sedie ergonomiche e schermi più grandi. L’azienda deve stare vicina alle persone in quanto tali, non in quanto dipendenti o in base ai loro ruoli in azienda. 

Quando le aziende si occupano delle persone e della loro felicità, concorrono alla loro produttività. Le persone che stanno meglio sono persone che lavorano meglio e che sono più produttive. Ecco che sono fondamentali i concetti di trasparenza e fiducia di cui parlavamo prima. Perché se costruiamo una relazione di fiducia, mettiamo le persone nella condizione di agire al meglio, quindi di stare meglio e di essere più produttive. Ecco perché il binomio produttività e felicità è fondamentale.

Quali ritieni siano i bias che rendono difficoltosa la trasformazione e l’installazione di nuovo sistema operativo aziendale?

Secondo me non ci sono bias, ma è la paura a bloccare le persone. 

Ad esempio, ho parlato con un HR Director della filiale italiana di una multinazionale che mi spiegava perché in azienda fanno 3 + 2 giorni di lavoro (remote working + in presenza). Io cercavo di spiegare che il 3+2 è sbagliato concettualmente, perché non è smart working. Le ho esposto la mia visione, dicendo che bisogna capire le esigenze dei micro team e lei ha risposto che il 3+2 è una decisione aziendale e che non si potrà mai cambiare. Cosa ho pensato io? Che se riteniamo una decisione aziendale sbagliata e non la possiamo cambiare, dobbiamo essere noi a cambiare azienda. 

Questo è il motivo per cui in alcuni casi la trasformazione non avverrà mai. Infatti le persone hanno paura della propria ombra e non hanno il coraggio di impegnarsi per fare il meglio per sé stessi e per l’azienda. 

Il limite della trasformazione sono le persone. Che cosa significa? Che serve una massiccia operazione di orientamento e di lavoro sulle persone. 

Trasformeremo le aziende nel momento in cui le people saranno centrali, ma come? Nei consigli di amministrazione si devono sedere delle persone che si occupano del personale. Le trasformazioni in azienda sono top-down, mai bottom-up, quindi abbiamo bisogno che il nuovo messaggio di trasformazione arrivi dall’alto. 

Nella trasformazione aziendale le difficoltà sono le persone, ma anche la soluzione sono le persone.