L’Open Innovation al servizio della Marketing Technology?

light bulbs that refer to the idea of ​​innovation

Il marketing sta vivendo un periodo di grande evoluzione, stretto tra la necessità delle aziende di focalizzarsi sempre più sul cliente e l’impatto crescente delle tecnologie. È un’opportunità da cogliere per i marketer, che richiede però competenze nuove e trasversali, come la capacità di disegnare il customer journey, la sensibilità a comprendere il contesto, una solida padronanza della tecnologia e spiccate doti analitiche.


In questo contesto emerge la figura del marketing technologist.

Una professione che si inserisce tra i domini del marketing e dell’IT. Il fine è aiutare le organizzazioni a fornire sempre la migliore esperienza al cliente, nel momento giusto e attraverso il canale più adatto. Marketing Technologist. Trasformare l’azienda con il cliente al centro, edito da FrancoAngeli, inquadra la professione descrivendo i fattori che hanno portato alla sua crescente importanza. Lo fa tratteggiando i possibili percorsi di carriera e fornendo una mappa delle famiglie di tecnologie che si troverà a governare.

Nell’ambito della Marketing Technology o martech (quell’insieme di soluzioni software per gestire e analizzare i dati del cliente, produrre e archiviare contenuti multimediali, automatizzare attività di marketing e comunicazione, N.d.R.) sta emergendo una sfera nuova e affascinante relativa alla gestione dell’Open Innovation, l’innovazione più spinta.

Gianluigi Zarantonello si occupa di Digital Strategy dal 2000, conciliando le logiche di business con una solida conoscenza della tecnologia. Dopo un periodo in ambito consulenziale, dal 2006 al 2016 è Digital Marketing Manager e poi Responsabile della Business Technology e dell’Innovation Lab di Gruppo Coin e OVS. Oggi è a capo della Direzione Digital Solutions a livello global in una nota maison del lusso. Appassionato divulgatore con il blog Internet Manager Blog, è docente in master e corsi di alta formazione.
Nel libro Marketing Technologist ha scritto a più riprese che è molto importante ragionare con un’ottica outside-in nel porsi in una prospettiva cliente. In particolare vuole rovesciare la tradizionale posizione per cui le cose si definiscono dentro l’azienda dal punto di vista dell’impresa e poi si applicano al mercato e al consumatore.

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Oltre al cliente, c’è un altro tipo di soggetti grazie a cui partire dall’esterno può essere vincente: le startup e gli incubatori. Queste possono essere coinvolti grazie ad iniziative di Open Innovation.
Questo termine è stato coniato dall’economista statunitense Henry Chesbrough in «The era of open innovation». In questo saggio del 2003, l’autore mira a superare il paradigma unico della closed innovation; l’innovazione classica, che si svolge dentro l’impresa e che non può più coprire tutti i numerosi campi di ricerca tecnologica utili agli scopi delle aziende.

Si può fare Open Innovation attraverso molteplici modalità:

il sostegno economico a competizioni per startup; gli hackathon; l’acquisizione, da parte di grandi corporation, di startup innovative. E anche la creazione di corporate accelerator per startup; la partnership con università, centri di ricerca e incubatori per innovare su specifici settori.

Inoltre, è possibile impostare un programma formale e regolare in cui varie funzioni dell’azienda attingono all’ecosistema esterno sulla base di argomenti e brief specifici.

Oppure agire in un modo più limitato e dipartimentale, frequentando i contesti dove è possibile incontrare startup e facendo una costante opera di aggiornamento.

Il punto metodologico fondamentale però sta tutto nell’utilizzo di questi contesti innovativi per trovare delle soluzioni in grado di:

risolvere un problema che abbiamo in modo creativo; suggerire un nuovo tipo di scenario che non avevamo mai preso in considerazione.
Ci vuole apertura mentale e tempo da dedicare, prima ancora che budget. Spesso, infatti, le collaborazioni possono iniziare con valori economici limitati; rispetto per l’interlocutore che non va strangolato nelle condizioni proposte e attenzione alle implicazioni legali sulla proprietà intellettuale.

Nella sfera della martech, questo tipo di approccio vi potrà permettere di scovare delle piccole realtà che lavorano su quegli ambiti più di frontiera o di nicchia. Aree funzionali al vostro essere marketer bimodali nel momento in cui vi dovete spingere su terreni dove le tecnologie emergenti possono darvi una marcia in più.

Sicuramente questo modo di lavorare è anche un ottimo canale per cercare nuovi talenti. Vi metterà, infatti, in contatto con professionalità nuove e difficili da classificare nei tradizionali percorsi di studio o di lavoro. Inoltre, non è raro che le aziende più grandi acquisiscano startup verticali per dotarsi di competenze nuove; anche per entrare in contatto con specifiche tipologie di clienti.

Un esempio recente del secondo caso è Under Armour

L’azienda americana ha acquistato le app di fitness MapMyRun e MyFitnessPal; seguendo le orme di quanto fece Adidas con Runtastic, per approcciare la community degli sportivi.

Nell’ambito delle grandi acquisizioni ai fini di internalizzazione di competenze, cito invece l’ecosistema di app e di aziende acquisite nel tempo da WalmartLab. E ancora l’acquisizione di Yoox-Net-a-Porter da parte del gruppo Richemont o quella di Dynamic Yeld di McDonalds.

Alcune acquisizioni coinvolgono aziende non definibili startup. Altre, più vicine a questo paradigma, perseguono lo stesso concetto: integrazione di competenze da settori vari per competere nell’industria di riferimento.

La contaminazione culturale beneficia anche la controparte meno strutturata, che sia acquisizione o collaborazione. Consentendo agli imprenditori tecnologici e ad altri talenti di comprendere il funzionamento delle aziende più grandi, identificando parti dei loro servizi rilevanti per il mercato.